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mercoledì 3 aprile 2013

UNA NOTTE AFOSA




Luce. C’è troppa luce in questa stanza così piccola. La mia mano nervosa cerca freneticamente l’interruttore e lo gira. Non ci vuole molto perché i miei occhi si abituino alla poca luce che filtra dalle veneziane tirate su. E’ la luce della città il suo cuore pulsante. Di giorno frastuono, di notte silenzio complice e traditore. Luci colorate che incantano il viaggiatore ignaro. Ma io non sono né un viaggiatore né tantomeno ignaro. Luci che ammiccano e mi chiamano, balordo tra i balordi. Come ero finito in quel buco? Guardo l’orologio che porto al polso. Un regalo avuto secoli prima, quando ancora facevo parte delle persone e non dei reietti. Sono le due di notte. Tardi per la gente che lavora, un’ora qualunque per uno come me. Insonnia. La mia compagna di sempre anche questa volta non mi ha deluso. Avevo provato a leggere ma mi era venuta la nausea ed il sonno non era arrivato. Conosco persone che usano sonniferi o magari droghe, io non sono il tipo, le cose devono accadere naturalmente e naturalmente il sonno sarebbe arrivato, se non oggi magari domani, magari mentre meno me lo aspetto, magari quando sono in bilico su un cornicione, mentre guido, mentre mangio, mentre prendo la mira per sparare. Fottuta città. Dicono che è una dea capricciosa che tutto prende. A me ha preso tutto, la dignità, i sentimenti, la ragione. Non ho più nulla da offrirle, eppure lei mi mantiene in vita, forse nel suo perverso meccanismo posso ancora esserle utile. Decido che è arrivato il momento di fumarmi una sigaretta. Allungo una mano e afferro il pacchetto che è sul comodino. 
Con gesto esperto ne faccio uscire una fuori l’afferro con le labbra e la tiro via. Cerco i cerini ma le mie dita incontrano l’accendino. Ero certo di averlo gettato, invece lui è lì ammiccante e complice. Bastardo pure lui. Il pollice scorre e la fiamma appare e per un attimo il letto la mia mano e la sigaretta prendono vita animandosi di un colore giallognolo e tremolante. Accendo la sigaretta poi mi rigiro l’accendino tra le mani e mi torna in mente una storia triste, una storia per la quale avevo deciso di smettere di fumare. Tiro una lunga boccata , il fumo invade la bocca sale e scende e mi annebbia il cervello. Chi non ha più dignità non è tenuto a mantenere le promesse, quindi posso fumare senza sentirmi colpevole. Ma io sono colpevole, lo sono sempre. Ancora una boccata e poi fisso la luce arancione del mozzicone. Promesse infrante. Sono la mia specialità. Anche la città è la regina delle promesse infrante e dei sogni spezzati. Dovevo fumare o quella notte non avrebbe avuto fine e sarebbe sembrata ancora più squallida e soffocante. Dalla finestra socchiusa non un alito di vento. Notte afosa. Notte fottuta. Il sudore mi cola sulla fronte, fastidioso e petulante come un insetto. Rumori rari e distanti vengono dalla strada. Voci lontane liquefatte dal caldo, stridio di gomme sull’asfalto. La città non dorme mai, al massimo si riposa. A quell’ora la città fa da cornice ai delinquenti alle puttane ed ai disperati, il mio genere la mia razza. Guardo di nuovo la sigaretta, tiro un ultima boccata e poi la spengo deciso nel portacenere. E’ facile spengere una sigaretta almeno quanto lo è spengere una vita. Entrambe bruciano velocemente e muoiono per mano dell’uomo. Stasera mi sento un poeta. Questa stanza mi da sui nervi, il caldo mi da sui nervi. Pigramente mi alzo ed al buio sbatto contro la sedia. Impreco. Barcollando cerco i pantaloni. Al buio mi vesto. Di solito ci si spoglia, magari mentre una bella donna, o semplicemente una donna, ti aspetta vogliosa nel letto. Ma non stanotte. Fa troppo caldo, sono troppo fuori di testa per sentire una tale necessità. Metto in tasca quello che mi serve. Non per tutti sono necessariamente le stesse cose. E’ soggettivo. Apro la porta e me la chiudo alle spalle. Il corridoio è caldo come la stanza e puzza di più ma mi sembra che sia più fresco, che mi faccia respirare meglio. Mi allontano da quella porta con un vago senso di vittoria. Ho preso la mia decisione anche per stanotte. Non male per uno come me. Esco dal portone e mi ritrovo in strada. Le insegne luminose delle pubblicità e dei locali equivoci non mi danno noia come quella della stanza. Sono ammiccanti, complici, mi salutano come vecchi amici di bagordi. Scuoto la testa. Il caldo da alla testa non c’è dubbio, ma io che la testa l’ho persa da tempo? Una cosa su cui riflettere, in effetti. Ma si riflette meglio davanti ad un buon bicchiere. Le mie idee migliori le ho sempre trovate nel fondo di un bicchiere o di una bottiglia. Non sono mai stato molto originale. In fondo al vicolo alla mia destra c’è un bar uno di quelli aperti ventiquattrore su ventiquattro. Le mie gambe sanno cosa fare, dove andare. Mi fermo davanti alla vetrina sporca e con l’insegna mezza fulminata. E’ aperto. Mi sarei stupito del contrario. Entro ed il barista mi squadra cupo. Sono solo un altro sbandato nella notte. Soldi facili. Non c’è molta gente. 
Due ubriachi che stanno smaltendo la sbronza dormendo riversi su uno dei tavoli e due papponi con le loro puttane. Sono giovani ma sfatte dal caldo e dalla stanchezza. Non è un lavoro facile il loro. Io le ho sempre rispettate. Sono donne forti e deboli al contempo. Un enigma che mi ha sempre affascinato. Una volta avevo una donna ed era mia. Adesso per avere una donna devo pagarla. Infondo tutte le donne hanno un prezzo e le puttane sono quelle più a buon mercato, ci sono donne che costano addirittura tutta una vita. Un prezzo spropositato ma che una volta ero disposto a pagare. Una volta. Mi siedo al bancone ed ordino un doppio whisky. Il barista si sposta pigro come se ogni movimento gli costasse il triplo della fatica. Le ventole sul soffitto del locale non producono alcun effetto. L’aria è così ferma e umida che nulla la smuove. Le vedo girare riflesse sulla superficie del bancone. Si muovono ma non accade nulla è esasperante, soffocante. Lentamente bevo il mio drink. Non mi aiuta, ma non ho trovato di meglio. Forse se esco e faccio due passi magari trovo quello che cerco. Getto i soldi sul bancone ed esco dal locale. Mi sento rallentato come una sequenza ad effetto di un film poliziesco di terza categoria. Infilo le mani nelle tasche sformate dei jeans e muovo un passo davanti all’altro. Sembra facile, ma in quel momento solo una forte concentrazione mi permette di farlo. A camminare s’impara da piccoli a barcollare lo si fa da grandi. Sbuco su una strada di cui non ricordo mai il nome e ad un centinaio di metri vedo un gruppo di balordi appoggiati ad un lampione. Mi avvicino e sento uno strano odore. Stanno fumando, ma non sono sigarette. E’ crack. Non si vergognano di farsi sul marciapiede. Non li spaventa nulla, nemmeno che possa passare una pattuglia. La notte è loro, la città glielo permette. Cerco di non guardarli e passo oltre. Fa caldo, troppo caldo. Non voglio guai stanotte, vorrei solo dormire. E poi la luce di quel fottuto lampione mi da noia, mi ferisce gli occhi ed i miei occhi sono stanchi e vorrebbero solo smettere di vedere almeno per un po’. Abbassare le palpebre e fottersene di tutto e di tutti. Fare finta che tutto vada bene, che tutto sia bello come in una stucchevole favola di Disney. So che non andrà così.  Faccio pochi passi e la voce impastata di uno dei balordi mi apostrofa in modo pesante. Non so perché un uomo che gira da solo di notte debba essere per forza un finocchio. Me lo sono sempre chiesto. A quel richiamo seguono urla, risate convulse ed un dettagliato resoconto di quello che vorrebbero fare con il mio culo. Continuo per la mia strada indifferente. Sono in quattro ed io sono da solo e non al massimo della forma. Forse se li ignoro loro ignoreranno me. Una cazzata. Io lo so, loro lo sanno. Sento rumore di passi in corsa. Mi fermo e mi volto. Sono fuori di testa ma non così tanto. Quello che mi è venuto dietro è giovane, ben piantato ha tatuaggi sul volto ed è rasato a zero. Davvero un gran brutto elemento. Mi dice che vuole che glielo succhi. Come faccio a dirgli che non è il mio tipo senza offenderlo? Lo guardo come se fosse un marziano e lui s’incazza. E’ evidente che il mio atteggiamento non gli piace. E’ fatto fino agli occhi è pericoloso e lo dimostra subito. Mi sferra un cazzotto violento allo stomaco. Arretro barcollando senza fiato, piegato in due. Sento le risate degli altri che si avvicinano. Il mio culo è a rischio, in tutti in sensi. Non è il momento di piangersi addosso, potevo farlo fino ad un attimo prima, adesso è un lusso che non posso permettermi. Ma sono stanco accaldato, annebbiato e senza fiato. Il secondo colpo parte e mi prende al volto. Cado a terra e sento il sapore ferroso del sangue che m’impasta la bocca. Nausea. Sto per vomitare ma devo resistere, posso farcela. L’apatia mi avvolge ancora nelle sue spire, nemmeno la paura la smuove. Sento male ma non come avrei creduto. Di nuovo quel fottuto film a rallentatore. Qualcuno mi afferra per i capelli. Il dolore pervade tutto il corpo come un’esperienza mistica. Mio malgrado sono costretto ad alzarmi. Davanti a me tanti volti, cento, mille. Metterli a fuoco non è facile. Poi mi accorgo che sono solo in quattro, i soliti quattro di prima. Menomale avevo creduto che si fossero moltiplicati. Sono davvero fortunato. Questi sopportano il caldo peggio di me. Con il dorso della mano mi pulisco il sangue dalla bocca ma lui continua a colare. Mi hanno mollato i capelli ma mi hanno circondato. Vogliono solo giocare. Chissà cosa credevo. Si avvicinano. Parte un altro colpo, alle spalle. Cado in ginocchio sul marciapiede e vomito. Ridono sguaiati. Cosa ci sarà di divertente a guardare uno che vomita? Un calcio mi colpisce sul fianco. Sono senza fiato, sudato e comincio ad incazzarmi veramente. Io ero uscito per camminare e non per discutere con chicchessia. Non ho voglia di discutere, l’afa non facilita le mie doti comunicative, sono sempre stato un disastro nei rapporti interpersonali. Volevo solo una fetta di notte da godermi in santa pace. Perché la gente pensa sempre che quello che va bene per lei debba andare bene anche per gli altri? Io sono uno che lascia agli altri la libertà di scegliere quello che vogliono fare, gradirei che anche gli altri facessero lo stesso con me. Mi alzo barcollando. Me lo lasciano fare, fa parte del gioco. Colpire un soggetto in movimento è più divertente. Sono d’accordo. Faccio profondi respiri fino a quando mi sento più saldo sulle gambe. Loro ridono e m’insultano. Davanti a me il tizio che mi ha colpito per primo. Barcollo esagerando il movimento, faccio finta di cadere e mi avvicino, poi all’improvviso scatto e gli piombo addosso. Serro il pugno e picchio. Il rumore della cartilagine del naso che si spacca mi da soddisfazione. Stranamente il mio braccio scatta rapido prima che gli altri reagiscano, l’ho colpito ben tre volte. Ha la faccia coperta di sangue e crolla a terra come un sacco vuoto. Non provo nulla, nemmeno dolore alla mano. E’ come se il mio corpo agisse da solo ed io me ne stessi da un’altra parte a godermi lo spettacolo. Una sensazione strana, brutta e pericolosa. La mia reazione li ha colti di sorpresa. Sono spiazzati, ma quando vedono il compagno cadere a terra si riscuotono.
Il loro orgoglio ferito li fa scatenare. Alla luce del lampione poco distante brillano le lame di affilati coltelli. Non mi stupisco. Era una logica conseguenza. Mi meraviglio, anzi, che non li avessero già tirati fuori. Urla ed insulti. Si danno la carica. Ho poco tempo. Affronto il primo e lo disarmo con un calcio. Mi chino rapido e raccolgo il coltello. Sono io così veloce? Da quando? Forse è perché il mio corpo lavora da solo mentre io guardo da chissà dove. Mi metto in posizione in attesa del nuovo attacco. Il combattimento con i coltelli non è mai stato il mio forte. Preferisco di gran lunga una bella Glock calibro 45, facile, pulita e veloce. Fa rumore, questo è vero, ma ti permette di mettere fine ad una discussione da distanza e senza sudare eccessivamente. E stanotte sto sudando come una bestia. Una cosa che mi da molto fastidio. Si fanno sotto, ma in quel momento l’ululato di una sirena squarcia il velo pigro e afoso della notte. Sembra vicina, sembra proprio che stia per arrivare lì. I tre teppisti superstiti si guardano in faccia, poi mi guardano. Ci stampiamo nella mente le nostre facce. Non si sa mai, magari potremmo anche incontrarci di nuovo. I coltelli spariscono nelle tasche dei loro pantaloni da rapper e si dileguano veloci come gazzelle nella savana. Faccio profondi respiri. La faccia mi fa male e pure le reni ed il fianco per non parlare del cuoio capelluto. Il coltello mi brilla nella mano. L’urlo della sirena si dilegua nella notte. La pattuglia è passata vicina diretta altrove, ma è bastata allo scopo. Guardo il tizio steso a terra. Begli amici. Lo hanno mollato alla mercé del nemico. Non ci si può più fidare di nessuno. Mi viene voglia di piantargli il coltello in gola. Farei un piacere alla città. Ma stasera non la sopporto e non mi va di farle un piacere, lei ultimamente non me ne ha fatti molti. Richiudo il coltello a serramanico e lo metto in tasca, non si sa mai. Mi avvicino al teppista e con grande soddisfazione gli sferro un calcio nel costato. Tanto per mettere in chiaro che non sono un finocchio e che non lo succhio a nessuno.Una notte di merda, una delle tante, e ancora non è giunta al termine. Cosa dovo aspettarmi? Mi allontano infilando le mani in tasca. Sento il pacchetto delle sigarette. Lo tiro fuori e ne prendo una. Di nuovo quel maledetto accendino, ancora la sua fiamma seducente. Il sapore del tabacco invade i miei polmoni. Veleno, suadente, come il bacio traditore di una donna. Faccio alcuni tiri socchiudendo gli occhi. Ha uno strano sapore, sarà il sangue che ancora m’impasta la bocca. Non è un bel connubio, ma aspiro con soddisfazione. Dopo una bella scazzottata ci sta proprio una sigaretta, esattamente come dopo una bella scopata. Vedo delle puttane appoggiate al muro, mi guardano ma non si muovono. Non devo avere un bell’aspetto. Nemmeno loro lo hanno. Forse avrei bisogno di un bella doccia fredda. Getto il mozzicone della sigaretta in mezzo di strada. Forse dovrei tornare nel mio buco, forse dovrei fare il bravo ragazzo e mettermi a letto. Forse. Passeggio pesante senza avere una meta. Magari arrivo fino al fiume e aspetto che arrivi l’alba. Magari nel frattempo trovo qualcuno che mi pianta una pallottola in fronte o mi apre la gola con un coltello. Magari era meglio se non lasciavo la mia Glock in quella fottuta stanza. 
Dicono che la grandezza di un uomo si misura dai ciò che ha fatto. Forse mi daranno una medaglia, forse un orologio d’oro quando andrò in pensione o forse daranno a mia madre una bandiera ripiegata ad arte ringraziandola per il servizio che suo figlio ha reso al paese. Ho perso il conto dei giorni. Sono come un detenuto in attesa del giorno dell’esecuzione. Il mio lavoro salverà delle vite, e permetterà a qualcun altro di farsi fotografare mentre stringe la mano al sindaco. Ma è il mio lavoro e lo so fare maledettamente bene.
Mi appoggio alla balaustra e guardo scorrere il fiume, pigro e maestoso. Anche lui sente l’afa della notte. Quando l’alba renderà argentati i grattacieli avrò alle spalle un’altra notte insonne e davanti a me un altro fottuto giorno da infiltrato. Infilo la mano in tasca e prendo un’altra sigaretta. Fanculo alle promesse. Quelle sono per i bravi ragazzi ed io non lo sono. 
FINE

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